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I gabellotti erano “patruni ‘i commuru”. Padroni di comodo, proprietari “incaricati”. Erano schermi che avevano in dotazione soldi, potere e “surdati”, ma che non possedevano nulla davvero. Loro erano “schermu du’ patruni”, riflessi di chi non si vedeva quasi mai, ma il cui odore e la cui presenza si sentiva tutta, pesante e invadente.
Terra, frutti e gente, erano materia del padrone, che agiva e ne disponeva davvero, all’ombra del suo gabellotto. U’ patruni si nascondeva dietro quello schermo compiacente di chi per lui si sporcava le mani, compiva o, sanava, a secondo del punto di vista, ingiustizie e giustizie, esercitava il potere concesso per riflesso di chi lo comandava. Il gabellotto appariva, il padrone terriero comandava davvero.
D’apparenza, il gabellotto era il padrone. E tutti fingevano di credere a quello che era un segreto che in ultimo conosceva chiunque vivesse davvero immerso nella Sicilia terriera, tra cappeddi e birritte, tra arricchiti e contadini, che campavano solo per concessione del padrone.
Comandava la terra, la zolla ed il frutto, u’ manciari e i soddi.
Non c’era azione du’ patruni che non fosse perdonabile, non c’era nefandezza che non fosse giustificabile e vestibile di giustizia, tutto secondo un codice non scritto, che oggi ha un nome, una “cosa” che se veniva sposata, poi inghiottiva e digeriva chiunque la riconoscesse come sua, come “nostra”. Ma a masticare davvero era sempre e solo il padrone.
LE RADICI DEL MALE SICILIANO
Le radici del male siciliano stanno nell’indolenza, nella memoria corta a comando e a convenienza. Stanno turgide e maleodoranti nel circo dell’indifferenza e della conveniente amnesia. Quando il padrone passava, tronfio ed accompagnato dal suo gabellotto, le birritte e i cappeddi si piegavano, deferenti “a’ vossia”. Ma subito dopo che era passato il codazzo, quel che si sentiva era il mormorio, sordo e crescente. Dopo che il padrone se n’era andato, dopo che u’ manciari, offerto con grande ed ostentata magnanimità, era finito e le pancie ritornavano vuote, allora ecco che le amnesie di comodo sfumavano come il segreto del gabellotto, che diventava bersaglio del malcontento, della ribellione, dell’ira. Così per riportare la calma che aiuta gli affari bastava dare in pasto alla folla il gabellotto, in vece del padrone che si limitava a guardare dalle finestre. Tanto l’indomani c’era un altro gabellotto, sporte di cibo e un pugno di onze d’oro a sfumare e placare quel mormorio rimasto, così simile al ragliare di scecchi.
Oggi non è cambiato nulla. Oggi, avremmo bisogno di meno padroni e meno gabellotti, di più orgoglio e dignità, di meno parole non dette e di più parole schiette, di coraggio e senso di comunità, per non essere più somiglianti al ragliare di asini, contenti di mangiare il poco ma sicuro fieno quotidiano, chiusi in uno stretto recinto che abbiamo permesso ci venisse costruito intorno.
G.Bevacqua
2 Comments
[…] Lu manciari, u’ patruni e li SCECCHI. Se la megghiu parole è chidda ca ‘un si dici.. […]
Che tutto cambi perché nulla cambi.