Malerba
“Malerba”, erba cattiva: lo chiamavano così nel paese siciliano dove è nato. La sua storia comincia quando, ragazzino, viene spedito in Germania per allontanarlo da una giovinezza scapestrata. Ad Amburgo si inserisce in un ambiente di night e belle donne. Con le carte è abilissimo: al tavolo verde bara e si arricchisce. Coltiva nuove amicizie, scopre il sesso e il lusso. La Sicilia sembra lontanissima. Ma il destino lo richiama.
Dopo il servizio militare, a vent’anni, torna al paese: un’immersione negli affetti famigliari prima di ripartire per la Germania. Ma proprio la sera precedente alla partenza resta ferito nella strage con cui comincia lo sterminio dei suoi parenti: un regolamento di conti mafioso nello stile più atroce. Fugge, sconvolto, ma presto scopre che Cosa Nostra ha affidato il compito di ucciderlo a uno dei suoi amici d’infanzia…
Questa è la storia di un giovane uomo che sente di dover fronteggiare da solo lo sterminio della propria famiglia. Di un uomo che non ha fiducia nello Stato, né in alcuna altra istanza morale capace di contenere la ferocia umana. Di un uomo che scampa per miracolo a quattro agguati e decide di rinunciare a tutto, anche all’amore, per vendicare i suoi cari e sopravvivere.
Giuseppe Grassonelli, che assume in queste pagine il nome fittizio di Antonio Brasso (suo “nome di battaglia” negli anni della guerra di mafia), ci racconta la storia della sua vita breve e intensissima: segnata dalla morte e dalla cesura dell’arresto, all’età di ventisette anni.
L’ebbrezza dell’illegalità, l’orrore indicibile di un intero sistema di relazioni nel quale la vita umana e la dignità individuale non hanno alcun valore, ma tutto è clan, affiliazione o infamia, emergono in queste pagine con potenza sinistra. A parlarcene è la voce di un uomo radicalmente cambiato dall’esperienza della detenzione.
Giuseppe Grassonelli non si pente, non collabora con la giustizia e sconta dunque la pena durissima dell’ergastolo ostativo. Comincia a leggere, a studiare, fino a laurearsi e a diventare un detenuto modello. Per raccontare la propria storia si affida al cronista che anni prima aveva seguito la sua “guerra” come giornalista per una TV privata: Carmelo Sardo, che con efficacia e partecipazione ci conduce attraverso queste pagine. Per provare a capire. Perché le parole, e la memoria, sono l’arma più potente contro la silenziosa omertà del male.
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MALERBA
Il latrare lontano di un cane sveglia il mio sonno lieve nella notte che cade lenta e sempre uguale sulla mia esistenza grama. Apro gli occhi. Il buio della mia cella è tagliato appena da un cono di luce ovattata. È un lamento senza posa l’ululato contro il cielo di quel cane, probabilmente un randagio. O forse una randagia, che si dispera alla ricerca dei suoi cuccioli. E di colpo un ricordo che rimbalza dalla giovinezza allarga la mia bocca nell’accenno di un sorriso amaro. Chiudo gli occhi e rivedo quella cagna che trent’anni fa, una vita intera, abbaiava allungando la testa fuori dal suo nascondiglio. Poi fiutava l’aria e si guardava attorno. Era nervosa. Entrava e usciva velocemente dalla tana, come indecisa. Infine di colpo schizzò fuori, e si mise a correre.
Era da circa un’ora che con Tinu ’u Mancinu, Totò ’a Fimminedda e Nellu ’u Grossu, aspettavamo questo momento, raggomitolati sul dorso della montagna. Scattai verso la tana, gli altri mi seguirono. Infilai il mio braccio dentro il buco e tirai fuori il primo cucciolo, che attaccò a guaire. Lo affidai a Nello, infilai di nuovo il braccio nella tana e afferrai il secondo cucciolo, che consegnai a Tino. Il terzo non si faceva acchiappare. Si era rimpicciolito nella sua tana e riuscivo solo a sfiorarlo.
“Cazzo, devo sbrigarmi: se la cagna torna ci sbrana tutti” pensai. Infilai la testa e provai a scivolare nel buio di quel nascondiglio, quando alle mie spalle sentii ’u Grossu gridare: «A matri, a matri sta arrivannu…». Velocemente mi tirai fuori dalla tana, rinunciai al terzo cucciolo, presi gli altri due dalle mani dei miei amici e li ricacciai dentro, quindi scappammo. Ma risalire la parete scoscesa della montagna e sfuggire a quella bestia non era facile, anche se speravo che una volta abbandonati i cuccioli la madre avrebbe rinunciato a inseguirci. Non era la prima volta che rubavo cuccioli di cane. Quel giorno, però, andò diversamente. La cagna era inferocita e non ci mollava. All’improvviso Totò scivolò e precipitò sbattendo su ogni cresta spigolosa della montagna che incontrò nella sua discesa. “Porca miseria” pensai, “stavolta si è fatto male davvero quello stronzo.” Era da quando eravamo arrivati che frignava perché voleva andarsene a casa, che si spaventava per il ritorno della cagna. Totò era sempre terrorizzato da qualcosa.
Feci dietrofront per raggiungerlo e portarlo in salvo. Quando fui di fianco a lui cercai di tranquillizzarlo, mentre lui gridava dal dolore. La cagna si fermò a osservare quella scena. Sembrava dire: “Ma guarda che scemi questi due!”. Quindi desistette, si girò e andò a recuperare i suoi cuccioli. In quel momento passò di lì un amico di mio padre, che stava andando a lavorare. Totò era sanguinante e aveva una gamba spezzata, una mano fratturata, oltre a escoriazioni su tutto il corpo. Allora se lo caricò in macchina per accompagnarlo all’ospedale e lanciandomi uno sguardo avvelenato, mi disse: «Sei sempre tu, Male’…». Male’, Malerba, era il mio soprannome.
Tornato a casa, la sera come al solito le presi da mio nonno, da mio padre e dai miei zii, certi che fossi io l’unico responsabile. Era inutile che provassi a spiegare che l’idea non era stata mia. Che c’erano altri. L’unica a credere alla mia innocenza era mia madre, che però non riusciva a evitarmi né le bastonate, né le punizioni. Dopo quel fatto fui obbligato dai miei a stare più vicino a Totò, a proteggerlo: lui era l’anello debole della nostra compagnia. Dovetti accompagnarlo tutte le mattine a scuola con l’autobus, quando io di solito andavo da solo, di corsa, per tenermi in allenamento. Sognavo di fare il calciatore. Ero tifosissimo della Juve: i miei miti erano Romeo Benetti e Pietro Anastasi. Giuravo a me stesso che un giorno sarei diventato come loro. Ma intanto la mia palla al piede era lui, Totò. Per colpa sua ero costretto quasi tutti i giorni a litigare con gli altri ragazzi. Era così stupido che si faceva fregare subito il panino appena mi allontanavo un po’ da lui. Certo, la nota positiva era che Totò era bravo a scuola. Era lui che mi faceva i compiti – fu così dalle elementari fino alla terza media – ed era grazie a lui se riuscivo a essere promosso.
Ecco come andava. Arrivato a scuola, stanco e sudato dalla corsa, mi addormentavo sul banco, e allora il maestro tentava di svegliarmi con qualche ceffone, ma non c’era nulla da fare: io subito dopo mi riaddormentavo. Alla fine il maestro vi rinunciava e mi lasciava dormire. Mi svegliavo al suono della campanella e solo allora iniziavo la mia giornata vera e propria. Quando mio padre, operaio alla Fiat, aveva il turno dalle due alle dieci, pranzavamo insieme prima che andasse a lavorare e mi sottoponeva alla tortura delle tabelline. Presi tante di quelle sberle che le tabelline le imparai così bene da lasciare scioccato persino il mio maestro. Sì, imparai più da mio padre che dal mio maestro. A furia di schiaffi, sapevo più cose io di matematica e geografia che i miei compagni di scuola. Ma in classe ero totalmente assente. Non mi piaceva seguire le lezioni. Pensavo fosse una perdita di tempo.
“Io sono un calciatore, mica uno studente” mi ripetevo sempre per incoraggiarmi. A scuola, io e i miei compagni ne combinavamo di tutti i colori. Rubavamo qualsiasi cosa si potesse rubare. Non per farcene chissà cosa, ma per il semplice gusto di rubare. Una volta vedemmo un furgone di gelati fermarsi davanti a una bottega di generi alimentari. Il tipo al volante scese, aprì il portellone posteriore, estrasse due scatole di gelati ed entrò nel negozio. Con Tino bastò guardarci negli occhi per saltare sul furgone e portarcelo via con tutto il suo carico. Chiamammo gli altri amici e andammo col furgone in aperta campagna a mangiare gelati fino a sentirci male. Eravamo così sazi e nauseati che quelli rimasti cominciammo a tirarceli addosso. Perché facemmo quella cretinata resterà un mistero anche per noi. Non ci rendevamo bene conto che quella volta l’avevamo fatta grossa. Che non era la stessa cosa che rubare qualche cucciolo.
Furono fatte delle indagini da parte di tutti i genitori del nostro quartiere per scoprire quale figlio c’entrasse. Io, Tino e Nello fummo massacrati di botte, ma non “cantammo”. Come al solito ci tradì Totò, il bravo ragazzo, che raccontò tutto a suo padre e a sua madre. Cristo Santo, quante sberle presi quel giorno da mio padre. Ma non furono quelle a farmi stare male. I miei familiari e quelli dei miei compagni si indebitarono per pagare i danni che avevamo provocato al gelataio. Non avevo più il coraggio di guardare in faccia nessuno. L’unica che aveva pena per me era mia madre. Mi prendeva tra le sue braccia e cullandomi come un bambino mi ripeteva che era sicura che non avrei più fatto nulla di simile in futuro. Mia madre, che donna meravigliosa! Non ricordo di aver mai preso uno schiaffo da lei. Ogni suo rimprovero era accompagnato da un sorriso buono. Le promettevo sempre che mi sarei comportato bene, che avrei fatto il bravo. Ma puntualmente dopo qualche giorno mi cacciavo in nuovi guai. Chissà quanto devo averla delusa.
Eravamo una decina di ragazzini, nella mia banda. Quando non giocavamo a pallone nei cortili del nostro quartiere, scendevamo in centro a passeggiare lungo il corso, e non lasciavamo mai nessuno in pace. I nostri nemici erano “i Vicinzillari”, dal nome del quartiere in cui vivevano, Vicinzella. Mentre noi eravamo “gli Indiani”, perché il nostro quartiere era conosciuto come “zona degli Indiani”. Un giorno stavamo cercando i Vicinzillari, che avevano picchiato Memè, uno di noi, quando a un certo punto vedemmo due carabinieri e, poco distante, le loro motociclette ferme, posteggiate sul cavalletto. Quei carabinieri erano enormi, almeno così li videro i miei occhi di ragazzino. Mentre passavamo ci guardarono con occhi severi e indagatori, mentre ognuno di noi proseguiva per la propria strada con le nostre migliori facce da angioletto. Di colpo ci fu un gran fracasso. Mi girai e vidi una motocicletta dei carabinieri a terra. Restai immobile mentre un carabiniere con un balzo mi afferrò e iniziò a schiaffeggiarmi. Mi sentivo strangolare dalla sua stretta, a cui si aggiunse quella del collega. Cercai di divincolarmi, ero terrorizzato. Non capivo cosa stesse succedendo e perché mi stessero picchiando. Uno di loro disse di avermi riconosciuto e voleva che gli dicessi come mi chiamavo. Pronunciai un nome falso. Il carabiniere si avvicinò alla radio della motocicletta, tenendomi per un braccio. Mentre comunicava con la centrale, riuscii a liberarmi e a fuggire in mezzo al traffico del paese. L’altro carabiniere prese a inseguirmi ma non si accorse di un’auto che passava. Lo travolse, non morì per miracolo. Ero sconvolto. Avevo le orecchie infuocate, la testa mi scoppiava e le braccia erano indolenzite.
Scappavo, spaventato come non mai. Temevo che il carabiniere mi avesse riconosciuto. Mio padre e mio nonno questa volta m’avrebbero ammazzato: erano guai seri. Quando raggiunsi i miei amici, ero ancora stordito e atterrito tanto che gli altri si misero tutti a ridere non appena mi videro. Non capivo. Ridevano come matti. Uno di loro si convinse a spiegarmi tutto. Era successo che mentre ero voltato Totò aveva dato un calcio alla motocicletta del carabiniere e gliel’aveva buttata a terra. Non lo feci finire di parlare, mi girai verso Totò e gli saltai addosso, massacrandolo di pugni. Come aveva osato farmi fare una figura del genere? I miei amici non la smettevano più di deridermi. Gli diedi così tante botte che penso se le ricordò per tutta la vita. E quando dissero ai suoi familiari che fui io a picchiarlo e questi tentarono di rimproverarmi, li mandai tutti al diavolo e minacciai che il giorno dopo gliene avrei date ancora. Ero davvero stanco di pagare io le sue colpe. E visto che dovevo prenderle lo stesso decisi di accettare tutte le conseguenze. Finalmente, però, avevo scaricato Totò dalla mia vita. Da quel giorno, d’accordo con Tinu ’u Mancinu e Nellu ’u Grossu, allontanai ’a Fimminedda. E tutte le volte che si avvicinava lo prendevo a sberle, eludendo la consegna dei miei genitori, i quali pretendevano anzi che lo tenessi vicino a me e lo difendessi. Ma alla fine si dovettero rassegnare, io e i miei amici non avremmo più ripreso Totò con noi, senza contare che lui non si smentiva e continuava a procurarci guai. Alla fine Totò capì, e si chiuse in casa a studiare.
Sardo, Carmelo; Grassonelli, Giuseppe. Malerba . MONDADORI.. Edizione del Kindle.